lunedì 10 luglio 2017

"COME FIORI TRA LE MACERIE", DI MONICA MARATTA, CAPPONI EDITORE

Una scrittrice esordiente * originaria di Sant'Apollinare (FR) che ha scritto un libro dedicato alla vita dei contadini e di sua nonna durante il tragico ventennio fascista. "Vuole essere un omaggio all'intera zona che più di tutte ha subito i disastrosi bombardamenti degli alleati contro i tedeschi".

Come fiori tra le macerie:

Correva l’anno 1922 quando, in un piccolo paese della Ciociaria fiancheggiato dalle verdi acque del fiume Liri e incorniciato dai monti Aurunci, la piccola Filomena perde quanto di più caro ha al mondo: i genitori.
Prima l’adorata madre le viene strappata dalla grande
influenza, detta anche febbre spagnola; poi il padre decide
di emigrare all’estero, in cerca di chissà quale fortuna.
Filomena, sarà cresciuta dagli anziani nonni, vivendo l’imponente povertà di quei tempi, la fame e l’ancora diffuso analfabetismo.
Diventata una ragazza, bella e ammirata, rinuncia a un amore sincero e, per sfuggire alla miseria, va a cercare lavoro nella Capitale, prendendo servizio presso una famiglia benestante.
Seppur disillusa dall’amore e dagli uomini, per colpa dell’abbandono del padre, la giovane viene raggirata e ingannata da un militare, il quale le fa credere di amarla e volerla sposare, per poi sparire non appena Filomena rimane incinta.
La giovane donna, di nuovo sola, con una figlia da far crescere con le sue sole forze e in balìa dei pregiudizi dell’epoca per la sua condizione di ragazza madre, decide di tornare al paese natio dove si trova ad affrontare lo scoppio della seconda guerra mondiale.
La sua terra natale, distrutta e sfortunata nell’essersi trovata a far parte della tremenda linea Gustav, troverà la forza per rinascere dalle ceneri e dal sangue dei suoi caduti per merito dell’animo forte dei sopravvissuti.

* Autrice:Monica Maratta Nata a Roma il 10 giugno 1975 Via dei Fiordalisi 84 00071 Pomezia (Roma) Tel 3470887511 Email : piccola0806@libero.it. Pubblicazioni: 2016 Cuore indiano – Youcanprint

Erano le 7:30 della mattina del 5 marzo 1944 e Filomena se ne stava rannicchiata in quell’umida grotta con il suo bambino e molti altri poveri sfollati del paese. Nunzia non la lasciava più, ormai le stava appiccicata, prendendo confidenza con quella che un tempo le era sembrata una nemica, invece, in una situazione tragica come quella, si aggrappava a tutto pur di avere un minimo di conforto morale.

Ed ecco, anche quella mattina, l’ormai tristemente familiare rombo dei cannoneggiamenti che faceva stringere le persone tra loro con i volti terrorizzati.

Fu un attimo.

Dalla terra emerse un boato sinistro che somigliava al rantolo di una bestia moribonda, la grotta, colpita da numerosi proiettili perforanti crollò, e l’uscita si chiuse.

La gente cominciò a urlare, come impazzita, tentando di scappare dalla terra che franava. Filomena, d’istinto, aveva fatto scudo al figlio con il suo corpo mentre la luce veniva oscurata dalle polveri che, minacciose, si alzavano in quel lugubre luogo trasformandolo, pian piano, in un piccolo cimitero.

Un uomo, mettendo a rischio la propria vita, era riuscito a portarsi fuori da quell’inferno un secondo prima del crollo definitivo e subito, incurante dei colpi di cannone che non ne volevano sapere di cessare, si mise a scavare con le nude mani.

Filomena piangeva disperata, mettendosi a pregare e cercando di far parlare il suo bambino per assicurarsi che fosse ancora vivo ma intanto capiva, dal lamento sempre più flebile di alcuni, che la morte se li sarebbe portati via tutti da un momento all’altro se non fossero usciti presto da quella trappola infernale.

Il cannoneggiamento continuò per un’ora, cessando soltanto quando tutti i ricoveri furono distrutti. Qualcuno, ancora vivo ma ferito, gridava dal dolore e dallo spavento perché non riusciva a liberarsi dalla terra e dalle piante cadute.

Filomena, seppur coperta anche lei dal terreno franato, era stata molto arguta perché, al primo rumore sinistro provocato dalla terra che cedeva, era saltata in piedi e, afferrato il figlio, si era portata verso l’uscita. Poco prima di raggiungerla, purtroppo, fu costretta ad arrestare la sua corsa a causa di una frana che le sbarrò la strada; aveva ottenuto comunque un vantaggio importante se mai fossero riusciti a salvarla.

Nel frattempo, qualcun altro era riuscito a emergere dallo strato di terra in cui avevano intrappolato un arto, o talvolta anche entrambi, e pur avendo una spalla lussata o una gamba ferita, aveva preso a scavare con fervore insieme agli altri, cercando di salvare quante più vite possibili. Lì sotto vi erano bloccati anche bambini, donne e anziani.

Filomena, in quella condizione, non riusciva più a respirare pensando, ormai, di cedere e di non avere più speranze, quando all’improvviso vide una luce accecarle gli occhi.

A malapena intravide un uomo che le tendeva la mano e, in quel momento, le sembrò di sognare quando, dai lineamenti del viso, lo scambiò per Peppino.

«Filumè sei viva! Grazie, mio Signore» continuava a ripetere l’uomo, emozionato.

Sì, era lui, era davvero Peppino!

Lei, sconvolta e con un filo di voce, gli sussurrò all’orecchio, avvolta nel suo abbraccio:

«Ci sono ancora Mario, Nunzia e la tua bambina, ti prego salvali!».

Peppino, agitato, chiamò a gran voce gli altri uomini affinché lo aiutassero a estrarre la gente da quel cumulo di terra e, quando Filomena vide estrarre dai detriti il suo bambino ferito, ma ancora vivo, quasi ebbe uno svenimento ora che la tensione le si scioglieva dall’animo.

Si accucciò in un angolo con il figlio stretto al petto mentre osservava Peppino che, disperato, scavava con le mani ormai insanguinate per cercare di salvare la sua famiglia.

Era assai dimagrito. I capelli sporchi, i pantaloni stracciati in diversi punti e le scarpe rotte facevano stringere il cuore di Filomena che, a vederlo ridotto in quello stato, provava una tremenda pena, non perché lei se la passasse meglio ma perché, in quel momento, le faceva impressione con il viso scarnito e gli occhi spalancati dalla disperazione nello scavare con gesti rabbiosi. Pregava per lui e sperava ritrovasse i suoi cari sani e salvi. Si sarebbe data una pugnalata al petto pur di non vederlo soffrire.

Il grido di gioia che si levò da parte di tutti i presenti quando anche la bambina di Peppino fu estratta viva scemò subito dopo quando si accorsero che Nunzia, invece, era morta. La folla si strinse a cerchio intorno al marito che singhiozzava con il cadavere tra le braccia mentre le chiedeva perdono per non averla potuta proteggere. In cuor suo lo faceva anche perché era dispiaciuto di non averla mai amata veramente ma non poteva comandare i suoi sentimenti.

Ben pochi erano stati estratti vivi da quella caverna, molti dei morti erano rimasti schiacciati dalle macerie, altri soffocati dalla terra che, respirando, aveva intasato i loro polmoni.

Il trasporto dei feriti e dei defunti verso il paese non era stato certamente facile, le strade erano disastrate, piene di buche a causa dei bersagliamenti e sparse qua e là c’erano alcune granate pronta ad esplodere appena qualcuno metteva lì un piede.

Il dolore della gente rimasta viva era tanto, palpabile, bisognava dare ugualmente una degna sepoltura a quella povera gente senza pensare al passato, ma solo al futuro, portandoli nel cuore e ricominciando.

Dovevano rinascere, come fiori tra le macerie.

Sepolti i numerosi morti, il tempo passava lentamente, lasciando un sapore desolato di morte nel paese e nelle campagne lì attorno. Il piccolo centro rurale era stato distrutto al 95% e aveva lasciato 160 deceduti per gli eventi bellici pagando il prezzo della vicinanza con Cassino e la sua abbazia ormai inesistente. Restavano brandelli di mura della chiesa parrocchiale di S. Maria degli Angeli che era stata costruita intorno all’anno mille e, con essa, andarono perduti i dipinti e le preziose tele che l’avevano resa straordinariamente bella.

Le case erano state abbattute o fortemente danneggiate, tutto sembrava triste e desolato portando scoramento nei cuori dei poveri sopravvissuti che, in silenzio, speravano e pregavano nel ritorno dei loro cari che ancora mancavano all’appello dalla fine della guerra mentre, nei campi, le mine nascoste e i proiettili abbandonati continuavano a mietere vittime.

Intanto, dall’America, cominciavano a giungere i primi soccorsi alimentari e vestiari mentre l’UNRRA, un’organizzazione con personale americano volontario, trasportava il materiale edilizio per la ricostruzione delle case.

Erano passati alcuni anni da quei tragici e distruttivi eventi, la piccola Luigia stringeva la mano di Filomena all’uscita dell’ambulatorio medico mentre Mario, di tre anni più grande, camminava davanti a loro due, con fare cavalleresco.

Peppino, che aveva lasciato un attimo il lavoro dei campi, corse loro incontro trafelato ed emozionato.

«Che ha detto il medico? Stai bene?» le chiese.

«Sono incinta Peppì!» riuscì a malapena a dire, colta dall’emozione mentre lo guardava innamorata.

«Bambini venite qui, stringiamoci forte» singhiozzò l’uomo.

«Papà che succede? Perché piangi?» gli chiese la bimba.

«Piango perché, nonostante le brutture della guerra, la vita sarà sempre più forte della morte e ora Dio mi dona questa famiglia che amerò più di qualsiasi altra cosa al mondo».

Peppino, dall’alto del Collicello, guardava i contadini che pian piano riprendevano ad arare i campi e, più in là, i ruderi che timidamente riprendevano le sembianze di una casa, sentendo il suo petto gonfiarsi di felicità e speranza.

La loro città natia stava riprendendo forma e vitalità. Una nuova vita stava crescendo nel ventre della sua amata, come il seme di un fiore dal nome più bello: Filomena.

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